Misericordia e accoglienza

Misericordia e accoglienza sono due parole che tra loro fanno rima. Lo abbiamo visto la volta scorsa come occorre accogliere i miseri che troviamo accanto a noi e le miserie che troviamo in noi.
Accogliere cosa significa concretamente nella mia vita? Per rispondere a questa domanda dobbiamo trovare degli esempi nella storia e nella quotidianità.
La prima accoglienza della storia la troviamo nella naturalità della vita: la donna accoglie la vita che si forma in lei, ma ancora prima l’uomo e la donna si accolgono a vicenda, l’atto sessuale è la prima e più grande forma di accoglienza.
La famiglia è la grande accoglienza: tra marito e moglie (il nuovo rito del matrimonio nelle promesse usa l’espressione “Io accolgo te”), la coppia verso i figli, i figli verso i fratelli.
Ma nella famiglia ogni accoglienza è un dramma, è un trauma da superare, porto l’esempio della nascita del primo figlio che rovina totalmente gli equilibri della coppia (l’intimità, le relazioni con altri amici e così via)
Accoglie l’uomo di ogni tempo i propri bisogni, ciascuno di noi si sente bisognoso di qualcosa: oltre ai bisogni primari del cibo e dell’acqua, del respiro e del riparo, nella quotidianità percepiamo il bisogno della relazione, dell’affetto, del lavoro, del riposo, dello svago, bisogni che gridano accoglienza.
Accoglie l’uomo anche le negatività della vita: gli imprevisti del lavoro e della famiglia, la malattia, le incomprensioni e così via.
E poi guardiamo ai testimoni di accoglienza della storia: dal cireneo che accoglie la Croce di Gesù di Nazareth ai “mecenate” che accogliendo la bellezza si facevano carico degli artisti, ai grandi esempi di accoglienza del povero, del pellegrino, del malato (Vincenzo de’ Paoli, Camillo de Lellis, Giovanni Bosco, Teresa di Calcutta…)
E allora torniamo alla domanda: cosa significa concretamente accogliere? Ma non è ancora il tempo di rispondere, ma solo di tenerla viva! Procediamo a scalini…
Il primo scalino è fare i conti con l’alterità. Termine difficile per dire che bisogna fare i conti con l’altro da me. Io accolgo un qualcosa che è altro da me. Il problema è quando l’altro da me sono me stesso. La sindrome adolescenziale che spesso sfocia in una lunghissima – a tratti eterna – adolescenza. Io fatico ad accogliermi perché io stesso mi percepisco altro da me. Questo è il primo grande problema: la frattura tra l’io reale e l’io ideale. Per essere esperti nell’accoglienza dobbiamo sanare questa frattura. Come faccio? Prima cosa devo fermarmi. Cosa difficilissima oggi giorno. Devo ritornare ad essere intimo con me stesso, devo sapermi accettare per quello che sono, diverso forse da come mi sogno ma sono io, io sono così e nel mio essere così sono unico al mondo, io racchiudo un’unicità che è cew==)))??o900’9w779garanzia di bellezza perché i capolavori sono unici. Fermarmi e guardarmi dentro, con fatica, prima in punta di piedi per non rovinare equilibri già precari e poi sempre più in profondità, talvolta anche arrabbiandomi perché nella rabbia c’è passione, l’apatia è la rovina non la passione!
Una volta sanata la frattura tra io ideale e io reale passiamo capire come affrontare l’altro da me. Scopriamo quindi che l’alterità è l’origine della vita. La prima grande alterità, lo dicevo prima, è quella diversità vivificante che c’è tra uomo e donna. Uomo e donna sono diversissimi nell’aspetto e nel carattere ma l’alterità diventa complementarietà. Nell’atto sessuale vi è la forma massima di complementarietà. Ora se accettiamo questa diversità massima perché facciamo fatica ad accettarne altre? Perché facciamo fatica ad accogliere l’alterità ideologica, chi la pensa diversamente da me, oppure l’alterità culturale, lo straniero? Perché fatichiamo ad accogliere il povero, il malato? Perché? Perché l’altro da me fa paura.
Ecco il secondo scalino: vincere la paura. Accogliere mi fa paura perché mi destabilizza, mi mette in discussione. Tutto quello che ho raccolto, le mie idee, i miei riconoscimenti, i miei spazi, i miei “luoghi di potere”, rischio di perdere tutto. Questo ragionamento è in parte vero, ma in massima parte sbagliato. Se io accolgo divento più ricco. L’agricoltore ci insegna la profezia dell’accoglienza: perde il seme, che muore, ma troverà una pianta. Ma l’agricoltore è paziente perché per accogliere la pianta deve aspettare la piena rinascita del seme. Io perdo per avere il cento per uno.
La nostra vita non è fatta per custodire il piccolo orticello che ci siamo accaparrati più o meno faticosamente ma per custodire il mondo intero.
E ancora la paura di accogliere la novità perché dentro ogni accoglienza c’è una novità.
Infine quindi il terzo scalino: affrontare la novità. In questo ci viene in aiuto la vita familiare. Un figlio già alla fine della scuola primaria, vissuto i primi dieci anni della sua vita come figlio unico, nella consapevolezza di essere il centro delle attenzioni dei genitori, si trova ad affrontare la novità di un nuovo fratellino: prima c’è la gioia, forse, e poi la durezza della quotidianità. Questa novità nella sua vita lo ha destabilizzato, gli ha fatto cambiare il modo rapportarsi con il reale. L’abitudine non basta, il fratello gli ha tolto per sempre qualcosa. Ora due strade: accogliere o non accogliere. Ora il fratello ha tolto l’attenzione dei genitori, poi “toglierà” la privacy, poi si cresce e l’eredità è da dividere… ora mi dite “Assurdo!” ma mi sembra che troppo spesso i fratelli litigano per le eredità! Ma se il bambino lo accoglie scoprirà la bellezza di avere un fratello!
L’altro da me non è mio fratello di carne ma come me ha un cuore, un’intelligenza, dei sentimenti, guardiamo entrambi al cielo quando ci sentiamo piccoli davanti alle grandi cose della vita, ridiamo quando siamo felici, piangiamo quando siamo tristi, ci batte il cuore per la paura ma anche per l’amore, siamo molto più simili di quanto pensiamo. Se una cosa ci divide, dieci ci uniscono e allora perché guardiamo all’uno e non al dieci? Se io accolgo l’altro da me scopro di avere un fratello, scopro la bellezza di avere un fratello.
Ed allora la domanda trova una risposta: concretamente accogliere vuol dire fare i conti con l’alterità, vincere la paura, affrontare la novità per vivere la bellezza di vedere l’altro come un fratello.
Vivere così però è difficile se non cambiamo un po’ la nostra mentalità. Chiamiamo “foresto”, ossia forestiero, straniero, anche chi viene a stare qui da Carasco o da Chiavari, senza renderci conto che in teoria siamo noi i forestieri per lui in quanto il termine significa “colui che viene dalla foresta”. Parliamo di straniero anche solo per una manciata di chilometri. Siamo troppo arroccati in noi stessi, chiusi nei nostri preconcetti. Ma così si vive male e rischiamo di temere la nostra stessa ombra.
Dobbiamo cambiare la rotta del nostro sguardo, dobbiamo essere capaci di intravedere, ossia vedere dentro, in mezzo alle pieghe e alle piaghe di chi mi sta accanto. Accogliere è sperimentare concretamente che la bellezza sta proprio nel fatto che lui è diverso da me e non uguale a me. Un mondo di uguali stanca, la diversità, lo ripeto, mi tiene vivo perché mi mette in gioco.
Proviamo ad allenarci in questo, non c’è niente di più bello che essere campioni di accoglienza. Perché? Perché io desidero essere accolto e non guardato con sospetto. La Regola d’oro del Vangelo è: “Non fare agli altri quello che non vuoi che sia fatto a te”. Ma può anche essere letta così: tratta l’altro come vorresti essere trattato tu.
Qui sta la misericordia, qui si gioca un dire misericordia ed un vivere la misericordia. Misericordia e accoglienza nei rapporti di famiglia, di vicinato, di lavoro, di parrocchia. Misericordia è accogliere l’altro quando sbaglia perché di perfetto c’è solo Uno, Misericordia è accogliere l’altro nelle sue rigidità perché anche noi ne abbiamo, Misericordia è accogliere l’altro nelle sue paure, perché anche noi abbiamo delle paure. In questo modo guarderemo con simpatia anche i nostri limiti, le nostre rigidità, le nostre paure, le nostre mancanze.
Accogliere l’altro e accogliere noi stessi sono facce di un’unica medaglia, anelli della stessa catena, la catena della Misericordia.